Fondi pensione: contrarian o trend followers?

by Silvio Bencini

L’asset allocation strategica, cioè il peso assegnato alle diverse asset class in un portafogli, è la scelta più importante per un investitore, individuo o istituzione.
Ma la differenza dei rendimenti fra le diverse asset class, soprattutto dei mercati azionari, fa sì che nel corso del tempo i pesi assegnati cambino come semplice conseguenza delle variazioni dei prezzi.
Perciò, se l’investitore vuole mantenere costante nel tempo l’allocazione, deve ribilanciare, cioè vendere le asset class il cui peso ha superato il massimo previsto e comprare quelle il cui peso è sceso.
Questa attività non è ne’ semplice ne’ banale come sembra.
Innazitutto perché ponendosi in posizione contraria (“contrarian”) all’andamento del mercato, l’investitore assume che i rendimenti abbiano la tendenza a ritornare verso la media (“mean reversion”). La strategia di vendere o comprare quando qualcosa è salito o sceso “troppo” offre un premio se quel qualcosa poi scende o risale.
Se ciò non accade e i mercati salgono o scendono per un lungo periodo (“trend”) la strategia porta a ridurre o aumentare l’esposizione rinunciando a profitti o accumulando perdite in modo non lineare rispetto al mercato (“concavità”).
Non solo occorre pensare che i rendimenti tornino verso la media, ma lo si deve credere anche della volatilità. Quando i mercati scendono la volatilità aumenta perciò se l’investitore compra e riporta il peso delle azioni al loro valore strategico aumenta, per lo meno nel breve termine, il rischio del portafoglio.
Infine ci sono i costi di transazione. I benefici offerti dal ribilanciamento possono venire annullati o ridotti dai costi che si sostengono per vendere o comprare, cioè le commissioni esplicite o implicite di negoziazione e il cosiddetto “market impact”, la variazione di prezzo sfavorevole causata dagli acquisti e dalle vendite.
Nel caso di investitori “in fase di accumulo” come i fondi pensione negoziali italiani, i costi sono contenuti perchè si può ribilanciare indirizzando i flussi di contributi verso le asset class penalizzate, senza bisogno di vendere quelle che si sono apprezzate. Negli altri casi, invece, il ribilanciamento va fatto con vendite e acquisti. Il costo può essere ridotto se l’investitore è in grado di vendere e comprare nei momenti di massima euforia o panico, ma questo non accade in tutti quei casi in cui il ribilanciamento è “calendarizzato”, realizzato cioè a scadenze prestabilite (mese, trimestre).
Esiste perciò una vasta letteratura che cerca di trovare il compromesso ottimale fra le diverse esigenze: mantenere sotto controllo il rischio di portafoglio, incassare il premio di ribilanciamento, non perdere i trend, non spendere troppo.
Un recente articolo di due studiosi olandesi affronta l’argomento dal punto di vista di investitori a lungo termine (1) .
Le conclusioni dello studio, basato su simulazioni, sono queste:
– In assenza di costi di transazione il ribilanciamento continuo è ottimale, ma produce benefici a lungo termine (20 anni) molto contenuti;
– Se si tiene costo dei costi di transazione i benefici si perdono e diviene conveniente ribilanciare con minore frequenza (da tre mesi a un anno);
Queste conclusioni dipendono dai valori dei parametri che utilizzano nel modello di simulazione. Se il premio per il rischio è alto, cioè se le azioni rendono mediamente più delle obbligazioni, il costo di ribilanciare meno frequentemente è più alto. Se il peso delle azioni è basso, il costo opportunità del non ribilanciamento è basso.
Un modello più complesso (Vector Auto Regression), che cerca di simulare l’evoluzione dei rendimenti tenendo conto delle correlazioni fra azioni e obbligazioni, del rapporto dei rendimenti correnti con quelli passati e della tendenza alla “mean reversion”, conferma l’utilità di ridurre la frequenza del ribilanciamento. L’esistenza di un elemento di trend dei mercati sulle frequenze più brevi rende efficiente ribilanciare a intervalli di un anno o più, anche se gran parte dei benefici si ottengono fra tre e sei mesi.
Insomma, è utile ribilanciare in modo sistematico. Ma cosa fanno effettivamente i fondi pensione?
Alla domanda risponde uno studio, anch’esso di provenienza olandese (2) , che esamina un database contenente osservazioni di asset allocation di 978 fondi pensione (prevalentemente a prestazione definita) su un periodo di 21 anni, dal 1990 al 2011. Il database è costruito dalla società CEM Benchmarking di Toronto, specializzata nell’analisi dei costi di gestione, e comprende Stati Uniti, Canada ed Europa, oltre a qualche fondo australiano e neozeolandese.

Gli autori verificano l’attività di ribilanciamento da parte dei fondi pensione e trovano una serie di risultati interessanti:
• I fondi pensione ribilanciano, cioè reagiscono alle variazioni del peso delle diverse asset class causato dall’evoluzione dei prezzi;
• i fondi non ribilanciano immediatamente, e, quando lo fanno, non riportano mai il peso dell’asset class al suo peso strategico;
• i fondi hanno un comportamento asimmetrico, e ribilanciano più rapidamente quando il peso delle azioni scende in conseguenza di una discesa dei prezzi che non quanto il peso sale in conseguenza di un rialzo. In altri termini sono “trend followers” quando i mercati vanno bene ma diventano “contrarian” quando i mercati vanno male. I fondi pensione si rivelano perciò operatori anticlici e fornitori di liquidità al mercato.
• Questa osservazione non è scontata. Dopo un crollo del mercato azionario, infatti, un fondo a prestazione definita può trovarsi nella condizione di non poter comprare perché la riduzione del valore dell’attivio riduce il suo “funding ratio” e dunque la sua capacità di assumere rischi.
• Infatti, non accade sempre così. Gli autori trovano che i fondi pensione americani (con maggiori problemi di “funding”) ribilanciano con minore velocità e confermano l’evidenza di altri studi, secondo la quale negli Stati Uniti nel periodo 2008/2009 i fondi pensione a prestazione definita furono venditori netti, anziché acquirenti di azioni (3).
• Oggetto del ribilanciamento sono soprattutto le attività liquide, il che è prevedibile, visto che, per definizione, le attività illiquide non sono acquistabili o cedibili sul mercato secondario (quanto meno non lo sono con la stessa velocità delle azioni).
Due studi recenti studi sui fondi italiani offrono interessanti elementi di valutazione su questi stessi argomenti.
Il primo è uno studio di Mauro Maré e Antonello Motroni del Mefop sulla movimentazione del portafoglio titoli di 14 fondi negoziali nel periodo 2005 – 2012 (4).
I due autori confermano che nel complesso, i fondi italiani hanno un approccio “contrarian”, spiegabile anche con la diffusione delle gestioni “a benchmark” che spingono naturalmente al ribilanciamento.
L’analisi è resa più difficile perché nel periodo 2005/2012 il peso delle azioni nel
patrimonio dei 14 fondi negoziali oggetto di analisi è sceso, passando dal 21,7% del 2005 al 14,6% del 2012. La riduzione di peso più importante, di 5 punti percentuali, è fra 2007 e 2008, ma all’impatto del crollo dei mercati del 2008 si aggiunge, negli anni successivi, la diffusione dei comparti garantiti a spese di comparti bilanciati che costituivano l’offerta fino al 2007.
L’analisi econometrica fa però emergere risultati opposti rispetto a quelli dello studio di Bams, Schotman e Tiyagi, perché i fondi italiani manifestano un comportamento “contrarian” nel ribilanciare quando il peso delle azioni supera l’allocazione obiettivo, mentre appaiono molto più esitanti nel ricomprare quando i prezzi scendono.
Ciò non stupisce, se si considera che nei fondi pensione negoziali l’attenzione del regolatore è concentrata più ad evitare l’assunzione di rischi oltre i limiti fissati nei documenti pubblici che non ad assicurare che vengano rispettati livelli di rischio minimo.
Il secondo studio sembrerebbe smentire, almeno nelle intenzioni, questo atteggiamento. Il Rapporto sui Fondi Negoziali 2012 (5) , pubblicato da Assofondipensione e presentato all’assemblea dell’associazione tenuta lo scorso 12 dicembre riporta un’analisi delle risposte date dai 9 fondi negoziali italiani nell’ambito dello stress test EIOPA 2017. Una domanda del questionario chiedeva se e come i fondi avrebbero ribilanciato il portafoglio dopo lo “shock avverso” (che, ricordiamo, prevedeva un crollo dei mercati azionari superiore al 40%). Solo 2 fondi su 9 hanno dichiarato di avere una procedura di ribilanciamento automatico, ma molti altri lo farebbero comunque nei mesi successivi. “Guardando alle decisioni che effettuerebbero i diversi fondi negoziali italiani nel caso si verificasse lo scenario avverso ipotizzato della ricerca dell’EIOPA – scrive il rapporto – emerge in modo inequivocabile la decisione di aumentare i titoli azionari quotati in portafoglio” da parte di 8 dei 9 fondi, mentre solo 1 lascerebbe invariata l’allocazione.

  1. Driessen J., Kuiper I. (2017) “Rebalancing for long term investors” Netspar Academic Series – DP 02/2018-025
  2. Bams D., Schotman P., Tyagi M. (2016) “Asset allocation Dynamics of Pension Funds”, Netspar Academic Series – DP 03/2016-016
  3. Il caso più famoso è quello del grande fondo CalPERS che nel 2008 si trovò in una grave crisi di liquidità e dovette vendere le azioni.
  4. Marè M. – Motroni A. (2017) “Le strategie di investimento dei fondi pensione: contrarian o momentum?” in Finanza e previdenza: i fondi pensione e la sfida dei mercati, a cura di Riccardo Cesari e Mauro Marè, Il Mulino, 2017.
  5. Assofondipensione (2017) Rapporto sui fondi pensione negoziali 2017
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