Strategie CTA e volatilità dei mercati

Alcuni anni fa due studiosi[1] sostennero che la strategia “trend following” dei fondi hedge associati alla categoria dei “Commodity Trade Advisors” (CTA) era di fatto replicabile con un portafoglio di ozioni e Bot, sia un semplice “long straddle” cioè con un portafoglio composto da un’opzione call e un’opzione put a prezzi di esercizio diversi sul mercato oggetto della strategia o ancora meglio un portafoglio di “look back straddles”.

Cercando di seguire con acquisti i mercati al rialzo e con vendite i mercati al ribasso la strategia assume che il rialzo e i ribassi continueranno, cioè che vi sia persistenza o “momentum” nel mercato.

Ma facendo così stanno di fatto comprando opzioni sul mercato, e il prezzo di queste opzioni si materializza in tutte quelle occasioni in cui dopo gli acquisti il mercato non sale e dopo le vendite non scende.

Chi compra opzioni è “lungo  di volatilità”, perché beneficia da un aumento della volatilità ed è danneggiato da una sua diminuzione. Indirettamente, considerando che a periodi di alta volatilità sono associati periodi di rendimento negativi del mercato, questa posizione ha un’effetto di mitigazione del rischio dell’intero portafoglio.

La domande se le strategie CTA siano “lunghe di volatilità” è posta in una recente pubblicazione di Winton Capital Management, uno dei gestori CTA più importanti e di maggior successo.[2]

Nell’analisi vengono considerati i rendimenti trimestrali dell’indice S&P 500 e i rendimenti negli stesso periodi dell’indice Barclay CTA, e gli autori mostrano che i rendimenti più elevati delle strategie CTA sono associati a periodi di rendimenti molto alti o molto bassi del mercato. In particolare in periodi di rendimenti molto negativi (inferiori a -10%)  le strategie CTA hanno una forte efficacia, perché hanno un rendimento positivo ed elevato in 9 casi su 11.

L’evidenza che il successo delle strategie CTA sia legato a periodi di alta volatilità è invece meno forte. Anche se nello stesso periodo il rendimento in periodi di alta volatilità è stato superiore mediamente di 1% annuo (6% contro 5%) questa differenza non è statisticamente significativa.

[1] Fung W., Hsieh D. (2001) “The Risk in Hedge Fund Strategies: Theory and Evidence from Trend Followers”, Review of Financial Studies, Summer 2001, Vol. 14, n. 2

[2] Winton Capital Management (2014) “Are CTAs ‘Long Volatility’?”, Research Brief, Ottobre 2014 Pecsighdivera .

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Strategie trend-following in tempo di crisi

Le strategie cosiddette “trend following” hanno avuto un rendimento molto positivo nel 2008 proteggendo gli investitori dal crollo dei mercati.

Grazie a questo successo le masse in gestione sono aumentate nei cinque anni successivi da 206 a 331 miliardi dollari.

Purtroppo, però, questi cinque anni hanno coinciso con performance deludenti. L’indice Newedge Trend ha avuto un rendimento annuo pari al -0,8% mentre i mercati azioni hanno avuto rendimenti a doppia cifra.

Ciò sta ovviamente inducendo molti investitori a chiedersi se questi risultati siano da considerarsi normali data la bassa correlazione di queste strategie con l’andamento dei mercati, o se, al contrario, queste strategie abbiano perso la loro utilità.

 

In un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Alternative Investments [i]

due economisti dell’università di York cercano di rispondere alla domanda analizzando il comportamento delle strategie trend-following in cinque crisi “globali” e otto crisi regionali.

 

Gli autori analizzano il comportamento delle strategie trend following su un gruppo molto ampio di serie storiche di prezzi di contratti future: 21 serie di prezzi di materie prime, 13 di titoli di Stato, 20 di indici azionari e 9 di contratti a termine su divise[ii].

 

Le serie più lunghe di prezzi di contratti future sulle materie prime partono dal 1980. Per numerosi indici o tassi gli autori ricostruiscono valori equivalenti a quelli dei contratti future partendo dalla serie dei prezzi a contanti e perciò per alcuni di essi (azioni e bond USA e UK, ad esempio) ottengono serie che iniziano nel 1921. Considerando che le analisi hanno come data finale giugno 2013 si arriva a un massimo di 92 anni di dati.

 

Il risultato generale è che ciò che è accaduto negli ultimi 5 anni è coerente con quanto accaduto in passato: le strategie trend following soffrono effettivamente le grandi crisi di mercato, e hanno mediamente rendimenti pari a un terzo e metà di quelli in periodi identificati come “non crisi” per i 24 e 48 mesi successivi all’inizio di una crisi, inteso come la data dell’ultimo massimo di mercato.

La spiegazione sta nel fatto che la “autocorrelazione seriale” dei prezzi, che rende possibile l’efficacia delle strategie trend following, è alta nei periodi “no crisi”, ma si abbassa, fino a diventare in alcuni casi negativa, nei periodi di crisi (l’ipotesi più diffusa è che ciò sia dovuto alle oscillazioni “comportamentali” della fiducia degli investitori).

Questo peggioramento medio dei risultati si verifica rispetto al rendimento delle strategie in generale e in periodi di “non crisi” in particolare, non rispetto ai mercati finanziari.

Infatti, le strategie trend-following risultano i media largamente migliori delle strategie passive.

Ad esempio, nei primi due anni di una crisi i mercati azionari hanno avuto un rendimento annuo compreso fra -31,60% per l’indice Nasdaq e un massimo di +2,56% dell’indice svedese, con una media pari a -14,37%, mentre sullo stesso orizzonte temporale le strategie trend following azionarie hanno avuto un rendimento medio di +5,44%.

La conclusione degli autori è che non conviene scoraggiarsi. Ciò che è accaduto in questi anni è accaduto altre volte e non ha pregiudicato la redditività a lungo termine delle strategie trend-following e del fattore “momentum”.

Silvio Bencini

 

 

[i] Hutchinson M.C., O’Brien J. (2014) “Is this time different? Trend-Following and Financial Crises”, Journal of Alternative Investments, Fal 2014, 17, 2. Disponibile anche su SSRN http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2375733.

[ii] Questo campione, che è certamente molto ampio, è però superato da quello di due altri autori. Si veda Geczy C., Samonov M. (2012) “212 Years of Price Momentum
(The World’s Longest Backtest: 1801-2012) in http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2292544

 

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MOLTIPLICATORE FISSO O VARIABILE?

I grafici di questa settimana mettono a confronto i risultati della simulazione di due strategie CPPI sul mercato azionario americano.

Le due strategie hanno tutti i parametri identici salvo il moltiplicatore.

Mercato: indice azionario S&P 500 dal 2 gennaio 2008 al 13 novembre 2009

Floor: 85%;

Durata: 1 anno

Tasso d’interesse: rendimenti constant maturity sui titoli di Stato USA a 1 anno, 6 mesi e 3 mesi (fonte http://www.federalreserve.gov/releases/h15/data.htm). All’inizio della simulazione si utilizza il rendimento a 1 anno, per i reinvestimenti in liquidità successivi si utilizzano rispettivamente i rendimenti a 6 e 3 mesi in funzione del tempo mancante alla scadenza.

Costi di transazione: 0,3%;

Filtro: 5%

Leva massima: 1

Il moltiplicatore è pari a 3 ed è costante nella strategia 1 (CPPI moltiplicatore 3) e variabile nella strategia 2 (CPPI moltiplicatore variabile). Nella strategia 2 il moltiplicatore viene ogni giorno moltiplicato per il rapporto fra il valore medio storico dell’indice VIX e il valore puntuale. Perciò in periodi di volatilità intorno alla media (nel nostro caso 22,59%) il valore del moltiplicatore rimane intorno a 3 mentre in periodi di volatilità molto bassa o molto alta il moltiplicatore scende fino a un minimo di circa 0,8 nei giorni di altissima volatilità dell’autunno 2008 e sale fino a oltre 6 in molti giorni del 2014 e 2013.

Il motivo per modificare il valore del moltiplicatore in funzione della volatilità è duplice. Da un lato perché in genere periodi di alta volatilità sono associati a andamenti negativi del mercato, dall’altro perché un moltiplicatore basso implica, a parità di floor, un minore investimento in azioni e dunque minore probabilità di venir costretti a a liquidare l’intera posizione azionaria prima della scadenza.

Come si può vedere dalle tabelle e dai grafici la strategia con moltiplicatore variabile migliora decisamente quanto a capacità di tagliare le perdire sia rispetto al benchmark (una strategia costantemente bilanciata al 45% in azioni e 55% in liquidità) sia rispetto alla strategia a moltiplicatore costante, ma a un notevole prezzo in termini di rendimento (circa 1,7% all’anno).

Strategia 1 anno

Strategia 1           Strategia 2           Mercato                Benchmark

 

Media:                    4.46                          2.78                          10.00                                         4.49

Mediana:              5.68                          2.76                          13.84                                         6.35

Dev.Std.:               8.89                          7.50                          19.03                                         9.06

Sharpe:                    0.39                          0.24                          0.47                                          0.39

VAR:                          -13.08                     -10.88                     -36.72                                     -18.01

CVAR:                       -13.40                     -11.44                     -40.29                                      -19.58

CPPI_USA_1_2014113CPPI_USA_VIX_1_2014113

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Quando uscire e quando rientrare nel mercato? Un’analisi delle strategie “stop-loss”

Il limite delle strategie stop loss è che sono una regola per uscire ma non per rientrare nell’investimento.

Il grafico seguente mostra un tipico profilo di rendimenti della strategia rispetto all’andamento del mercato azionario (o  di qualsiasi altra attività rischiosa).

Lungo l’asse orizzontale sono indicati i rendimenti del mercato azionario, lungo quello verticale quelli della strategia.

I pallini verdi indicano le combinazioni di rendimento per ogni simulazione.

Quelli lungo la linea retta indicano tutti i casi in cui il mercato ha avuto un andamento tale da non toccare mai la soglia di stop loss, il portafoglio è sempre stato investito e l’investitore è rimasto esposto alla crescita del mercato.

Quelli lungo la nuvola di punti in basso a sinistra indicano tutti i casi in cui il valore del portafoglio ha toccato la soglia di stop loss, la posizione è stata azzerata, e il mercato ha terminato il percorso su un livello inferiore. Se così non fosse avremmo un prolungamento della linea retto che vediamo nel quadrante superiore destro del grafico.

I pallini in basso a sinistra mostrano tutti i casi in cui il mercato, dopo il ribasso che ha indotto l’esercizio della stop loss, è risalito facendo perdere l’opportunità di guadagno all’investitore.

stoo_loss

Questo è il “costo” della strategia, che può essere moderato riducendo il livello di protezione e o la volatilità del portafoglio.

Diversi autori hanno analizzato il problema, e hanno constatato che le strategie stop loss presentano benefici sono il presenza di mercati mossi da trend, cioè che salgono o scendono in modo continuo per un certo periodo.

Tutti sono comunque d’accordo sulla necessità di affiancare alla strategia di vendita una strategia di acquisto. Rimanendo nell’ambito dei movimenti di mercato determinati dai trend (il cosiddetto fattore “momentum”) le regole di rientro sono normalmente definite in termini di medie mobili. Ad esempio, vendo se il portafoglio scende sotto un certo livello, ma ricompro solo se il valore dell’indice di mercato è al disopra si un certo valore, spesso definito come quello di una media mobile di valori passati.

In un recente paper[1] Joachim Klement analizza in modo sistematico il problema, simulando su un lungo periodo e su diverse asset class, l’efficacia di diverse strategie di uscita e di rientro, tutte comunque basate sul passaggio integrale da asset rischioso a liquidità e viceversa.

Klement propone di utilizzare un criterio speculare per vendite e riacquisti, basato su quattro parametri:

 

  • Il rendimento del portafoglio negli ultimi 3 o 6 mesi;
  • I livelli di “stop-loss” e “re-entry”, determinati come multipli della volatilità del portafoglio

 

Vengono così costruite quattro possibili strategie:

 

  • Fast out – Fast in – Si vende se la perdita negli ultimi tre mesi supera la soglia di uscita e si ricompra se il guadagno negli ultimi tre mesi supera la soglia di entrata
  • Fast out – Slow in – Si vende se la perdita negli ultimi tre mesi supera la soglia di uscita e si ricompra se il guadagno negli ultimi dodici mesi supera la soglia di entrata
  • Slow out – Fast in – Si vende se la perdita negli ultimi dodici mesi supera la soglia di uscita e si ricompra se il guadagno negli ultimi tre mesi supera la soglia di entrata
  • Slow out – Slow in – Si vende se la perdita negli ultimi dodici mesi supera la soglia di uscita e si ricompra se il guadagno negli ultimi dodici mesi supera la soglia di entrata

 

Klement simula il risultato di queste strategie su un periodo che termine nell’aprile 2013 e che inizia per alcuni mercati (azioni USA, Regno Unito e Svizzera, oro e merci) nel gennaio 1970,  per altri (indice FTSE/NAREIT dei fondi immobiliari quotati americani) nel 1972 e per azionario Euro e mercati emergenti nel 1988.

 

Le simulazioni producono diversi risultati interessanti:

 

  • Per tutte le asset class considerate le diverse strategie riducono la volatilità, e in particolare risultano efficaci per le azioni del Regno Unito e paesi emergenti e per i Reits americani.
  • Le strategie “veloci” sono in genere meno efficienti delle strategie “lente”;
  • Le strategie “lente” con una soglia di stop-loss compresa fra 0,5 e 1,5 volte la volatilità storica procurano i rendimenti più elevati;
  • La strategia apparentemente migliore è quella che combina “uscite lente” (slow out) e “rientri veloci” (fast in) con soglie di uscita e di rientro pari rispettivamente a 0,5 e 0,25 volte la volatilità storica.

 

Va precisato, però, che quasi tutti i benefici di queste strategie si realizzano durante mercati in rialzo o ribasso “secolare”, intendendo con questa espressione un rialzo o un ribasso che si protrae per oltre cinque anni.

 

 

 

[1]Klement Joachim (2013) Assessing Stop – Loss and Re-entry Strategies, 

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Fondi risk parity: un primo bilancio

Negli ultimi due anni si è diffuso l’interesse per le strategie “risk based” e in particolare per quelle cosiddette “risk parity” grazie anche ai buoni risultati che i prodotti così etichettati hanno ottenuto.

Queste strategie si declinano con diversi metodi di “parificazione del rischio”, ma tutte si sostanziano nell’idea di bilanciare i portafogli non in funzione del rapporto fra rischio e rendimento atteso delle diverse asset class, ma solo in base al contributo di ciascuna attività al rischio del portafoglio.

Il metodo più semplice è pesare ogni asset class in funzione del reciproco della propria volatilità. In tal modo, immaginando due sole asset class, azioni globali e obbligazioni a lungo termine, le prime con una volatilità del 15% e le seconde con una volatilità del 6%, si ottiene il classico portafoglio bilanciato prudente con circa 30% di azioni e la differenza in obbligazioni.

Rimandiamo alla scheda tecnica per una descrizione delle diverse modalità di realizzazione e un riassunto del dibattito accademico sull’argomento.

Qui proviamo a fare un primo bilancio, considerando che le strategie risk parity hanno cominciato a venire tradotte in prodotti d’investimento solo recentemente, e prevalentemente dopo la crisi del 2008.

Nella valutazione dei risultati vanno fatte due considerazioni preventive.

La prima è che il track record è breve, e soprattutto beneficia di un periodo favorevole per i mercati finanziari, grazie alle crescenti iniezioni di liquidità delle banche centrali e (per le azioni) dei valori di partenza molto bassi.

La seconda è che poiché le strategie “risk parity” tendono a costruire portafogli poco esposti all’azionario riescono a produrre rendimenti elevati solo se  associate a una leva finanziaria, cosa che invece non è presente nei prodotti che esaminiamo.

Per questo primo bilancio abbiamo messo a confronto sei fondi che dichiarano una strategia “Risk parity”, e cioè Raiffeisen 337 Strategic Allocation , Invesco Balanced Risk allocaton, 1741 Bank Global Diversification, Lyxor ARMA, Lombard Odier All roads e Duemme Systematic Diversification. Per tutti i fondi abbiamo scelto la classe istituzionale o più economica.

Come benchmark abbiamo utilizzato una semplice combinazione dell’indice azionario mondiale MSCI e dell’indice obbligazionario dei titoli di Stato dell’area euro JP Morgan All maturities Investment Grade, in proporzioni del 30 e 70%.

Nell’utilizzare un benchmark così semplice in un certo senso favoriamo i fondi risk parity, perché queste strategie si basano su una diversificazione fra asset class diverse e rischiose (obbligazioni  corporate high yield , azioni e obbligazioni dei mercati emergenti, materie prime, immobiliare quotato) alcune delle quali in questi anni hanno avuto rendimenti eccezionalmente positivi.

I track record disponibili, quanto meno quelli pubblici, sono corti. Il fondo Raiffeisen 337 Strategic Allocation è l’unico ad avere 5 anni di vita, Invesco Balanced Risk Allocation e 1741 Global Diversification sono stati lanciati rispettivamente  nel settembre 2009 e novembre 2009, Lyxor Arma nel maggio 2010 e Lombard Odier All Roads e Duemme Systematic Diversification a fine 2011 e inizio 2012.

Per rendere comparabili visivamente queste storie di rendimento abbiamo perciò posizionato nel grafico l’andamento della quota di tutti i fondi partiti dopo Raiffeisen 337 allo stesso livello che aveva la quota di questo fondo al fine mese della loro partenza.

Come si può vedere dal grafico il fondo Raiffeisen ha una perdita molto più elevata del portafoglio bilanciato fino al marzo 2009, ma poi recupera  ampiamente nei quattro anni successivi. I fondi Invesco e Duemme dalla partenza hanno un andamento molto simile al Raiffeisen, mentre Lombard Odier e 1741 hanno un andamento più moderato e più simile al nostro benchmark bilanciato.

Nella tabella sono riportate alcune statistiche di performance, da prendere con molta cautela perché sono tutte troppo brevi per essere statisticamente significative.

Notiamo innanzitutto che i rendimenti sono tutti positivi, e superiori al tasso senza rischio (qui posto, arbitrariamente, pari al 1% all’anno).

Sui periodi più lunghi il rendimento corretto per il rischio (indice di Sharpe) del nostro benchmark è uguale a quello di Invesco, superiore a quello di Raiffeisen e leggermente inferiore a quello di 1741. Lyxor ARMA ha un rendimento medio molto basso, metà di quello degli altri fondi, ma compensa con una volatilità ancora inferiore. Solo Duemme Systematic Diversitication ha un indice di Sharpe analogo (e migliore fra tutti), ma con un rendimento in linea con i concorrenti (ricordiamo, su un periodo molto breve e poco significativo).

In conclusione, i fondi risk parity hanno offerto rendimenti certamente positivi, ma non diversi da una strategia passiva e limitata a due sole asset class, cioè azioni globali e bond governativi europei. Per ora sembrano più un modo nuovo di convincere gli investitori a detenere un portafoglio prudentemente diversificato  (il che è già molto, in verità) che non una nuova ricetta miracolosa.

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La Volatilita’ Ai Minimi

In questi giorni l’indice VIX, che misura la volatilità attesa dell’indice S&P della borsa americana espressa dal prezzo delle opzioni sullo stesso indice, sta toccando nuovi minimi dell’anno e si sta portando nella zona di minimo compresa fra 10 e 12% all’interno della quale è stato solo due volte negli ultimi 23 anni, e cioè fra il 1993 e il 1995 e fra il 2005 e il 2007.
La volatilità implicita nei prezzi delle opzioni è in linea con quella registrata nell’ultimo anno dall’indice (circa 13%), ma è decisamente più bassa della media storica, pari al 18,5%.
Anche la volatilità implicita delle opzioni sull’indice STOXX 50 delle borse europee è sui minimi degli ultimi cinque anni, ma è comunque su valori più alti (circa 17%) e contrariamente all’indice americano è  ancora lontana dai minimi storici del 2005, quando arrivò al 12%.
Valori così bassi rendono meno interessanti tutte le strategie che vendono volatilità e rendono invece opportune strategie di copertura, o diretta o indiretta. is website up . Rixronettafo

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Un Nuovo Indice Buywrite

20 MAGGIO – Pochi giorni fa STOXX ha lanciato un nuovo indice, il EURO STOXX 50® 100% BUYWRITE INDEX.

L’indice si affianca al BUYWRITE che esiste dal 2006 e misura la performance di un portafoglio composto dal paniere dei azioni europee a larga capitalizzazione EURO STOXX 50 e dalla vendita di un’opzione call sullo stesso paniere con vita residua di un mese. Mentre nel BUYWRITE l’opzione è “out of the money”, con un prezzo di esercizio pari a quello più prossimo (dal basso) al valore dei regolamento dell’indice più 5%, nel BUYWRITE 100% nuovo indice l’opzione è “at the money”, con un prezzo di esercizio pari a quello più prossimo (dal basso) al valore dei regolamento dell’indice.

Nel documento di presentazione dell’indice 1 vengono messi a confronto i rendimenti composti annui dell’indice e della strategia buywrite nel periodo dicembre 1999 – aprile 2013. Considerando rendimenti comprensivi dei dividendi l’indice ha avuto una performance negativa nel periodo del -2,08% annuo, mentre le due strategie buywrite hanno avuto un rendimento rispettivamente pari al 3,09% (Buywrite) e al 4,12% (Buywrite100%), con una volatilità inferiore a quella dell’indice (18,83% e 15,76% contro 20,18%).

Risultati simili si possono ricavare dalle simulazioni disponibili sul sito.

La strategia è replicata dal ETF Lyxor Euro Stoxx 50 Buywrite (ISIN 0010389205). 

http://www.stoxx.com/download/indices/factsheets/sx5ebw_fs.pdf domain owner lookup Suipublantcounrai .

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